Il festival della valle d'Itria a Martina Franca si pone come uno degli eventi estivi di maggiore qualità. Chiusa l'edizione 2011, a lato delle recensioni già inserite e della presentazione on line nel sito, pubblichiamo due ulteriori interventi relativi a “Il convitato di pietra” (30 luglio) e a “Il novello Giasone” (31 luglio).
IL CONVITATO DI PIETRA
Che il “Don Giovanni” di Da Ponte/Mozart qualcosa pur dovesse a quel “Convitato di pietra” presentato con enorme successo nel napoletano Teatro dei Fiorentini nel Carnevale del 1783, lo si sapeva da sempre. Ma quanto, lo rivelò solamente la felice ripresa moderna del 1995 al Teatrino di Corte di Palazzo Reale a Napoli da Roberto De Simone, che ne curò ogni aspetto – dalla revisione critica alla rappresentazione scenica – potendo contare, cosa non indifferente, sulla raffinata bacchetta di Peter Maag. “Il convitato di Pietra” si deve a Giambattista Lorenzi e Giacomo Tritto: il primo abate e letterato di vaglia, autore di capolavori librettistici quali “L'idolo cinese”, “Il Socrate immaginario”, “Nina pazza per amore”; il secondo compositore ben conosciuto al suo tempo. Magari non al livello di un Paisiello, Cimarosa o Piccinni, ma pur sempre ai sui tempi tanto apprezzato da ricevere nel 1816 la nomina a Maestro di musica della Real Casa borbonica; e questo quando da tempo ricopriva - si invito del Zingarelli - la cattedra di composizione presso il famoso Conservatorio partenopeo. Un incarico che tenne sino alla morte avvenuta nel 1824, e giova ricordare che valido fu valido maestro di giovani speranze che rispondevano ai nomi di Spontini, Fioravanti, Bellini. Ne “Il convitato di pietra” c'è già tutta la traccia del”Don Giovanni” mozartiano che seguirà di lì a poco, salvo poche differenze: al posto di Leporello troviamo la maschera napoletanissima di Pulcinella, ed in luogo di Zerlina sta la bella contadinella Lesbina, promessa sposa di quello. Manca di conseguenza Masetto, al pari di Don Ottavio, che viene citato qua e là ma non appare. Naturalmente Pulcinella si esprime in un gustoso vernacolo, come d'uso sulle scene di Napoli, e lo troviamo essere il vero motore di tutta la vicenda, sempre pronto a far zampillare la sua sapida ed irriverente comicità squisitamente popolare. Espressa a ruota libera, la sua facondia non rispetta nulla e nessuno, ora rimbrottando il padrone per la sua sfrenatezza libertina, ora scontrandosi colla promessa sposa e col futuro suocero Bastiano, ora divertendosi a parodiare il linguaggio aulico dell'opera seria, con trovate che certo divertivano gli spettatori di allora assai più di quelli di adesso lanciandosi poi in frasi iperboliche quali “Proterva udisti, del mio tradito piede, l'ultima volontà” e in un improbabile “Mi fulmini la terra, m'incenerisca il mare”. Anche la sua Lesbina è una vivida figura popolana, piena di verve e brio, e dato che il suo ruolo alla prima era incarnato da una celebrità quale Celeste Coltellini, Tritto le concesse un' articolata aria in stile 'serio' – la più ampia pagina d'una farsa che altrove scorre veloce - perché si potesse rammaricare dell'abbandono di Don Giovanni. Di contrasto, finiscono invece un po' in ombra le due nobildonne, Donna Isabella – la Donna Elvira di Da Ponte – e Donna Anna; quanto a Don Giovanni, voce di tenore, figura sempre in scena, come un folletto spiritato, ma non ha da cantare gran che dopo la bella serenata d'apertura. A Martina Franca l'abbiamo ascoltata in forma di concerto (garbatamente vivacizzata però da leggeri accenni recitativi) avendo modo di apprezzare la salda preparazione dei bravissimi allievi dell'Accademia di alto perfezionamento vocale intitolata a Rodolfo Celletti: ed erano Mert Süngü (un solido Don Giovanni), Dolores Carlucci (Donna Anna, bella voce da tenere d'occhio), Maria Luisa Casali (Donna Isabella), Maria Meerovich (Lesbina, altra voce assai promettente), Simona di Capua (Chiarella), Pavol Kuban (ottimo Bastiano), Masashi Mori (Commendatore), Mattia Olivieri (il Marchese). Hanno tutti ben meritato i caldi applausi tributati loro dal folto pubblico presente nell'antico Chiostro di San Benedetto; c'era però tra loro quale ideale punto focale dell'intero gruppo un solido professionista quale Domenico Colaianni, istrionico ed irresistibile interprete di un gustosissimo Pulcinella. Dirigendo un efficiente ensamble strumentale tratto dalle file dell'Orchestra Internazionale d'Italia, il giovane Matteo Pais ha concertato con discreta abilità, conferendo verve e giusta trasparenza a questa piacevole farsa, vitalissima e ancor oggi pienamente godibile.
IL NOVELLO GIASONE
Il Giasone” di G.A. Cicognini e Francesco Cavalli, presentato la prima volta a Venezia nel 1649 al San Cassiano, costituì probabilmente il maggior successo operistico dell'epoca, contribuendo non poco nei decenni a seguire all'affermazione del nuovo genere del melodramma fuori della Serenissima, là dove s'erano aperti i primissimi teatri a pagamento. Come si sa, la nascita di questi ultimi – e quindi dell'impresariato musicale, e delle compagnie più o meno fisse – fece uscire quel genere di intrattenimento dal contesto elitario delle corti principesche, avviando un processo di diffusione (e potremmo dire anche di «democratizzazione») del melodramma destinato a non conoscere soste. Riproporlo nell'adattamento fattone nel 1671 dal giovane Alessandro Stradella, con notevoli interpolazioni (di nuovi versi, di nuovi personaggi e, va da sé, di nuove sue musiche), operazione resa possibile dalla disponibilità della recente revisione critica del testo ad opera del giovane Nicola Usula e di Marco Beghelli, è stata un'idea invero intrigante, molto adatta per un festival coraggioso come quello di Martina Franca. La ripresa affidata a Stradella era destinata al romano Teatro Tor di Nona, con l'onere di adattarla come d'uso al gusto ed alle aspettative di un pubblico nuovo; pubblico colto, raffinato, gravitante intorno all'entourage della regina Cristina di Svezia. “Il novello Giasone” uscito dalle sue mani di Stradella - e da quelle dei suoi collaboratori letterari, G.F. Apolloni e Filippo Acciaiuoli - preserva il meglio della splendida creazione di Cavalli, e l'arricchisce di elementi nuovi e sorprendenti. Qualche inevitabile e doloroso taglio s'è dovuto fare dovendo stare nelle dimensioni di uno spettacolo adatto al pubblico d'oggidì, ma la versione che il Festival della Valle d'Itria ha presentato nella piccola sala del Teatro Verdi di Martina Franca ha mantenuto massima coerenza drammatica, ed ha permesso di salvaguardare il meglio del suo materiale musicale. La parte strumentale stava nelle mani dell'OIDI- Festival Baroque Ensamble, formazione con strumenti originali snella e duttile, concertata e diretta da Antonio Greco: nel suo intervento molta attenzione ai dettagli, proprietà stilistica, una buona varietà di colori, pertinente la scelta delle soluzioni timbriche e strumentali anche se – spiace dirlo – difettava nella sua lettura quella indispensabile 'drammatizzazione della musica' che deve sottendere ogni messinscena di un'opera antica. Nella parte di Medea doveva esserci Daniela Dessì, ma un forfait improvviso per motivi di salute ha costretto a cercare all'ultimo una sostituta nella giovanee volenterosa, ma ahimé inadeguata Aurora Tirotta, che molto ha gridato e poco ha cantato; ben superiore, sul profilo stilistico e per dolcezza di timbro, è apparsa l'Isifile di Roberta Mameli. Il baritono spagnolo Boja Quiza è stato un apprezzabile Giasone; bene (con qualche nota d'eccellenza) gli altri: Mirko Guadagnini (Egeo), Luigi De Donato (Besso), Luca Tittoto (Oreste), Gaia Petrone (Alinda), Masashi Mori (Ercole), Pavol Kuban (Volano). Nelle parti buffe, il sopranista Paolo Lopez ha creato un'irresistibile Delfa (micidiale figura di serva alquanto scurrile, sempre affamata di sesso), mentre Krystian Adam ha tratteggiato con encomiabile abilità il difficile e fondamentale ruolo del balbuziente Demo, la cui feroce ma esilarante comicità fu uno dei tanti motivi dì successo del primo “Giasone” . Protagoniste del Prologo erano Maria Luisa Casali (Sole), Gabriella Costa (Musica), Giuseppina Bridelli (Poesia), ancora Gaia Petrone (Pittura), Krystian Adam (Architettura). Juliette Deschamps ha costruito una regia sobria e raffinata nell'assunto di base, ma che man mano si rivelava un tantino stucchevole nella sua ripetitività; ha poi deluso nel momento del Prologo, là dove il finto crollo delle quinte inventato dai collaboratori romani di Stradella per un portentoso 'coup de scéne' (e qui sostituto da un quasi silenzioso cader d'un bianco velario) veniva ad interrompere rovinosamente la tirata poetica del Sole. La scenografia fissa di Benito Leonori proponeva l'ossatura d'una chiglia di nave – lo scafo degli Argonauti - con una candida vela fluttuante nel vento, ora sullo sfondo, ora a mo' di sipario. Una bella intuizione, senza dubbio, ma la parte del leone l'hanno fatta le cangianti e fatate luci di Alessandro Carletti. Nel disegnare i costumi, Vanessa Sannino ha dato troppa briglia alla sua fantasia, cadendo a mio avviso un po' nel ridicolo in taluni personaggi: quello di Giasone, soprattutto, curiosamente vestito e truccato in maniera strabiliante ed eccentrica. Teatro strapieno, ottimo successo di pubblico.